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Madre snatura

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Tra le baracche di Bangkok si aggirano uomini violenti e donne violentate nella dignità. Tutto si muove lentamente in un’atmosfera ovattata, ma claustrofobica. Ogni gesto è sacro anche nel suo essere profano. Prostitute, poliziotti giustizieri, abili spadaccini, trafficanti come Billy e Julian. Il primo muore ammazzato, effetto domino di una notte balorda in cui aveva violentato e ucciso una ragazza thailandese. Adesso la madre dei due, spietata e cinica, chiede al figlio più piccolo di vendicare il suo prediletto, obbligandolo al legame di sangue, per farne sgorgare ancora per il puro piacere della ripicca.

Nonostante il suo celebre daltonismo, Refn si immerge in un mondo bicolore, attraversato da una scala a chiocciola diretta verso i bassifondi umani illuminata solo di blu e rosso. La freddezza livida  dell’impassibile spietatezza si alterna all’istinto animale, alla passione di morte. Il regista danese conferma una sua peculiare abilità di gestione degli spazi e di prossemica dei personaggi, dividendo la scena in due piani paralleli. Da una parte i corpi immobili (le donne, i culturisti, gli spettatori) che fanno da sfondo figurativo, da carta da parati silenziosa, dall’altra i corpi in movimento, vivi, ma destinati allo scontro sanguinoso e cruento.

Solo Dio perdona cerca di recuperare a pieno la rara poesia della violenza di Drive, ma senza riuscirci, perché dall’ opera precedente Refn riprende solo una scena simile, un attimo di lirismo dedicato all’impaccio dell’unico gesto di presunta dolcezza tra un uomo e una donna. Per quanto la crudeltà del scontro fisico sia ancora più giustificata da un protagonista ancor meglio descritto nel suo percorso passato e traviante, l’eccessiva enfasi riposta nel ridondante rituale della morte fa pensare al compiacimento e al piccolo esercizio di stile.

Piccolo vezzo di presunzione formale che non inquina il messaggio urlato a bocca chiusa da Ryan Gosling, per cui è giunta l’ora di togliersi di dosso quella maschera implosa di dolore e repressione. Il cinema di Refn affida il suo film ad un personaggio perdente oltre che perduto e continua coerente col suo percorso di messa in scena dell’incomunicabilità tra esseri umani, panorama pietoso in cui le persone si parlano a cazzotti, gli uomini non riescono ad amare, i bambini assistono ad orrori, il corpo è spesso puro involucro e le madri riescono a rovinare per sempre figli rimessi al mondo.

Più che a Drive il determinismo impregnato di sangue di Solo Dio perdona fa pensare più al recente Come un tuono, grazie ad un irrisolvibile e malato complesso edipico, vincolo inevitabile di un passato che chiude ogni possibilità di futuro.

Coerente con questa concezione di resa, Solo Dio perdona ci regala una scena “madre” sontuosa e si dimostra un film di genere sul degenere e sulle degenerazioni di chi proviene dal fango e ne rimane soffocato. Un film penalizzato e non esaltato dal confronto col suo predecessore, opera significativa, ma non priva di difetti che solo a Refn si possono perdonare.

Giuseppe Grossi